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Semiotropie. Eredità di Barthes
A cura di Giuseppe Crivella




Una problematica del senso*
di Roland Barthes

(Traduzione di Maria Gaia Crivella)

16 febbraio 2016




I problemi del senso sono diventati molto attuali da una decina d’anni; ciò è avvenuto per effetto di più fattori, innanzitutto per lo sviluppo abbastanza straordinario della linguistica negli ultimi trent’anni. Nel XIX secolo la ricerca linguistica, molto importante, si è sviluppata soprattutto nel senso di una linguistica storica e di una linguistica comparatista. All’inizio di questo secolo, verso il 1915, Ferdinand de Saussure ha posto storicamente le fondamenta di quella che potremmo definire una linguistica del linguaggio, e non più una linguistica delle lingue, cioè della funzione di parole e non più di questo o quel gruppo di lingue.

La linguistica saussuriana è stata ripresa e sviluppata dal danese Hjelmslev e di recente il corso della linguistica ha preso ancora un nuovo slancio con i lavori dell’americano Noam Chomsky. Si è avuto uno sviluppo o, più esattamente, un’estensione dei metodi di analisi linguistica a partire dal linguaggio articolato che parliamo a tutt’altra specie di linguaggi che esistono nella vita sociale ma che non hanno come supporto il linguaggio articolato; è così che è iniziato lo studio, servendosi di concetti analitici provenienti dalla linguistica, di messaggi o insiemi di messaggi costituiti dalle immagini; per esempio, l’immagine fissa nel caso della fotografia o del disegno, l’immagine mobile, il cinema (ma potremmo citare anche alcuni lavori in corso sul teatro). Lascio da parte per ora il problema della pittura, del disegno artistico e quello dei gesti che non ho ancora ben studiato.

Chiamiamo “semiologia” questa scienza generale dei segni concepita poco a poco a partire dalla linguistica; a dire il vero, sarebbe meglio chiamarla “semiotica” perché la parola “semiologia” è già utilizzata in campo medico (scienza del riconoscimento di segni e sintomi).

Tuttavia sarebbe molto comodo avere due parole: si potrebbe utilizzare semiotica per indicare sistemi particolari di messaggi. Avremmo dunque una semiotica dell’immagine fissa, una semiotica dell’immagine cinematografica, una semiotica del gesto; chiameremmo semiologia la scienza generale che riunirebbe tutte queste semiotiche.

Tra tutti questi campi d’estensione della linguistica, ricorderei in modo particolare l’estensione dei metodi d’analisi strutturale (nella misura in cui la linguistica è stata strutturale da circa trent’anni) al discorso, cioè a un insieme di parole, proposizioni superiori alla frase; la linguistica attuale è una scienza che si ferma alla frase. Il linguista non descrive mai insiemi superiori a una frase, considerata come l’unità materiale di catene parlate o scritte.

Ben inteso, il testo letterario è stato soggetto a metodi d’analisi che si sono diversificati nei secoli, dalla retorica antica fino ai metodi più estetici o, al contrario, più positivisti; ma un insieme di frasi che si può definire discorso non era mai stato studiato da un punto di vista propriamente semiotico; ora siamo sulla buona strada. Naturalmente si tratta di ricerche poco note al grande pubblico, che non hanno ancora condotto a libri decisivi; ciò avviene nei centri di ricerca, nelle tesi di dottorato di III ciclo; è ancora una ricerca preliminare ma che ha già un buon approccio.

Un’altra estensione, a partire dal focus linguistico, è quella che oggi chiamiamo strutturalismo. La parola struttura è molto antica. Si può dire che non ha avuto alcuna pertinenza negli ultimi cento anni; tutte le scienze erano più o meno strutturali, dall’architettura alla biologia alla grammatica; ma credo che attualmente il nome strutturalismo debba essere riservato a un movimento metodologico che confessa precisamente il suo legame diretto con la linguistica. Questo sarebbe secondo me il criterio di definizione più preciso; si incontrano evidentemente scienze umane apparentemente molto lontane dalla linguistica ma di cui si sa ora che possono essere affrontate con metodi d’analisi e concetti operativi che vengono dalla linguistica. D’altronde, le due ricerche strutturali più personali, le più marcate, le più tipiche attualmente sono, da una parte, quella di Lévi-Strauss in etnologia e in antropologia, e dall’altra quella del dottor Lacan in psicanalisi, che ha avvicinato in modo estremamente suggestivo il mondo della psiche dei concetti linguistici, postulando, secondo la frase che gli è attribuita, che l’inconscio stesso, in una prospettiva psicanalitica, sia strutturato come un linguaggio.

Si obietta talvolta che questa attualità dei problemi del senso è, in fondo, un puro fenomeno di moda; si è arrivati a dire che questa attualità era in rapporto con il gollismo poiché, a prima vista, questa appare come un insieme di metodi che sembrano disinteressarsi della storia, del concreto, del sociale con una apparenza formale e formalizzante. Nel loro successo, si vede una sorta di segno di depoliticizzazione della ricerca intellettuale; questa proposizione è estremamente grossolana: a mio parere, l’attualità dei problemi di senso è molto più che un’attualità. È l’onda di fondo della civiltà della seconda metà del XX secolo.

Mentre la seconda metà del XIX secolo, nel campo delle scienze umane, è stato dominato dalla nozione di fatto, dalla ricerca e dall’istituzione del fatto, dalla dominazione del fatto, nel XX secolo la ricerca è dominata dal senso: vi è una sorta di progetto storico collettivo molto grande che ci supera e che fa sì che attualmente consideriamo un po’ il linguaggio nel senso più profondo ed esteso del termine; il linguaggio è il continente da esplorare, come se l’esplorazione planetaria dei cosmonauti dovesse corrispondere, sul piano dell’interiorità, all’esplorazione di un territorio molto mal conosciuto e che è precisamente il linguaggio o, se preferite, la significazione, il senso.

Il senso è un termine generale, poco preciso; ma si può dire di sapere abbastanza bene cos’è il senso secondo uno schema estremamente elementare al quale bisogna ogni giorno ritornare: il senso è l’unione di un significante e di un significato. I caratteri dell’uno e dell’altro sono abbastanza ben conosciuti, abbastanza ben classificati, soprattutto quelli del significante; ciò che ancora è meno chiaro è il significato.

Dove comincia e dove finisce il senso? È sempre qui il problema. Naturalmente possono essere fornite delle soluzioni, ideologiche o estetiche, al problema del limite del senso, ma una risposta tecnica, precisa, è molto più difficile.

È assolutamente chiaro che un solo e uno stesso significato può avere diversi significanti, ciò che in senso proprio chiamiamo polisemia, una sorta di ineguaglianza tra i due termini, significante e significato.

Attualmente, nella linguistica del linguaggio, si distinguono due parti essenziali: la sintassi e la semantica (il senso delle parole). La linguistica della sintassi si è sviluppata e ha fatto progressi sorprendenti, specie di recente con Chomsky. Ma la semantica strutturale mostra qualche difficoltà a elaborarsi, a costituirsi. Ci sono eccellenti semantici (Greimas, per esempio), ma non si può dire che esista attualmente una semantica strutturale tanto ben fondata quanto la grammatica generativa di Chomsky. È evidente che questa sorta di blocco della semantica nella scienza linguistica è dovuto precisamente al fenomeno della polisemia. È proprio perché esiste la polisemia che è estremamente difficile studiare il senso propriamente detto. Possiamo studiare delle relazioni, compito della sintassi, ma i sensi sono molto difficili da studiare; d’altronde, su un piano maggiormente operativo, più tecnico, meno speculativo, i progressi delle macchine per traduzioni sono frenati da questo problema della polisemia. È a causa della polisemia che sorgono problemi nel costruire efficienti macchine per traduzioni. Ed è per tentare di integrare questo temibile problema della polisemia che si elaborano periodicamente sistemi simbolici di interpretazione; l’ultimo, in ordine di tempo, almeno il più importante, era la psicanalisi, sistema d’interpretazione nel senso proprio del termine, che tenta precisamente di pensare, di sistematizzare la polisemia. La psicanalisi lavora sul postulato fondamentale che certi fenomeni hanno più sensi, o certi sintomi, nell’ambito psichico, hanno più sensi: sono polisemici. Al contrario, ciò che attesta l'intensità spesso scottante di questo problema del senso e specialmente della polisemia, è costituito dal fatto che le istituzioni o l'istituzione stessa, l’istituzione sociale si dà sempre come compito di sorvegliare il senso, di sorvegliare la proliferazione di sensi. Per esempio, lo sviluppo considerevole della formalizzazione matematica nel linguaggio delle scienze umane è un modo di lottare contro i rischi di polisemia; in un altro contesto, nell’interpretazione dei testi letterari si esercita anche una sorta di sorveglianza da parte dell’istituzione, all’occorrenza dell’Università, sulla libertà d’interpretazione dei testi, cioè sul carattere in qualche modo polisemico infinito di un testo letterario; insomma, la filologia sarebbe questa scienza incaricata di sorvegliare gli eccessi polisemici che sono nella natura stessa del senso. E se consideriamo il senso in questo modo, cioè nei suoi rapporti con l’istituzione o le istituzioni, ci si rende conto che è in realtà un problema molto cocente: quasi tutti i dissidi ideologici dell’umanità, in ogni caso dell’umanità occidentale, da secoli, sono sempre dissidi del senso. È sempre intorno a un’interpretazione, che sia in teologia, in sociologia, o precisamente in filologia, che sorgono polemiche e scontri molto violenti. È dunque in rapporto a questo problema del limite del senso che vorrei tentare di proporre, in un giro d’orizzonte molto vasto e di conseguenza molto poco rigoroso, una sorta di classificazione di quello che chiamerei i diversi regimi antropologici del senso.
Ne abbiamo tre.


Monosemia

Il primo regime è quello che quello della monosemia, sistema ideologico sociale o istituzionale o estetico in cui si ritiene che i messaggi o i significanti abbiano un solo senso, che è quello giusto. Questa monosemia, cioè il postulare che ci sia un solo senso, è una forma di ciò che i patologi del linguaggio chiamano asimbolia.

È un regime in cui si ha una sorta di cecità o sordità al simbolo. Utilizzo “simbolo” in una accezione estremamente semplice e ampia: come coesistenza di due sensi; là dove coesistono almeno due sensi, si ha un simbolo. Se, di conseguenza, si postula che non ci sia che un solo senso, ci si dichiara in qualche modo chiusi, sordi o ciechi al simbolo. Sarebbe d’altronde interessante ricordare che l’asimbolia è precisamente ricordata dagli specialisti del linguaggio come un tratto patologico. Il fatto di essere sordo o chiuso o cieco al simbolo è, in qualche modo, il segno di qualcosa che non va bene. Attualmente, si arriva abbastanza bene a situare in una prospettiva al contempo psicanalitica e psicosomatica l’importanza di questa asimbolia presso certi individui.

La scuola di psicosomatica a Parigi ha condotto studi molto interessanti che sembrano mostrare che i malati psicosomatici sono appunto persone che non simbolizzano in sé stessi, che hanno un’impotenza a simbolizzare, e specialmente a simbolizzare gli stessi loro corpi; di conseguenza, non possono dire nulla, non possono parlare, o meglio non possono immaginare. L’immaginazione è il regno del simbolo. È perché non immagina che il malato avrebbe questa forma d’affezione psicosomatica. La conseguenza, paradossale ma evidente, è che per trattare un malato psicosomatico, bisogna trovare il modo di restituirgli l’attitudine a simbolizzare, l’attitudine a immaginare, l’attitudine a vivere nel simbolo. Il modo di guarirlo consisterebbe nel fornirgli una nevrosi, poiché la nevrosi è appunto il regno del simbolo, dell’immagine.

Il simbolo è un fenomeno propriamente umano. Ora il problema del linguaggio degli animali è molto di moda. Ma dopo aver creduto effettivamente che gli animali parlassero o avessero in ogni caso un linguaggio che si potrebbe ricostruire (si è partiti dalle api, per poi proseguire con i corvi, le taccole e ora i delfini), non si è ora sicuri che ci sia un linguaggio degli animali; ciò che è sicuro è che esiste una comunicazione animale, ma ciò che distingue l’uomo dall’animale è che l’uomo è il solo a simbolizzare. L’asimbolia è dunque una malattia tipicamente umana. È grave a livello individuale sotto il profilo psicosomatico di cui ho appena parlato, ma sarebbe altrettanto grave, al livello di una civiltà, arrivare, per una serie di artifici della storia, a uno stato collettivo di asimbolia. Non è il nostro caso, benché il potere mitologico e mitico sia estremamente nascosto nella nostra civiltà tecnica. Si incontrano evidentemente forme istituzionali di questa monosemia. Sono tutte le discipline o piuttosto i linguaggi che postulano, in modo estremamente fermo, che un linguaggio, un messaggio o un discorso o un significante non hanno che un solo senso e che, di conseguenza, c’è una lettera, una letteralità del senso alla quale bisogna attenersi. In realtà, se in certi casi precisi la monosemia è utile, se è garanzia di rigore e di lucidità in certi tipi di linguaggio, in senso generale e più ampio, essa comporta gravi inconvenienti. Nello specifico, un discorso che fosse interamente monosemico o asimbolico sarebbe alla fine del tutto tautologico.


Polisemia

Il regime di polisemia è la forma di linguaggio, nel senso più ampio del termine, delle società che accettano il linguaggio mitico, quello che Hegel chiamava «il brivido del senso»[1]. Hegel diceva che gli antichi Greci attribuivano sensi multipli a tutti i fenomeni naturali e umani: ai boschi, alle fonti, alle foreste, ai fiumi, tutto era dotato di senso e, di conseguenza, la natura intera appariva all’uomo, e appare all’uomo mitico, come animata da una sorta di fremito del senso. L’espressione è molto bella e indica precisamente questo potere simbolico, polisemico delle società, soprattutto delle società mitiche. Il problema non è di elaborare il simbolo, il simbolo è dovunque, ma di accettarlo. Ecco, per esempio, tre forme diverse di questa polisemia. Innanzitutto, la versione in qualche modo arcaica, etnologica della polisemia o del simbolismo, della simbolia nel senso pieno del termine: tutte queste società mitiche per le quali tutto è significante: natura, piante, animali, architettura, racconti, legami di parentela. Il senso è dovunque ed è riconosciuto essere dovunque. In secondo luogo, il regime della polisemia gerarchizzata cioè dei modi di pensare che accettano l’idea che un segno abbia più sensi, ma che pensano che in tutti questi sensi ve ne sia uno privilegiato, vero. Come esempio si potrebbe indicare la concezione del senso nella teologia medievale, e specialmente in Dante. Ritroviamo questa teoria per tutto il Medioevo a proposito delle Scritture, realtà essenziale su cui riflette l’uomo del Medioevo. È la teoria dei quattro sensi. La teologia ammette che il Vangelo, le Scritture o una parabola o anche solo una frase del Vangelo stesso, abbiano quattro sensi contemporaneamente: un senso letterale, quello delle parole stesse, quindi un senso storico che si lega all’umanità di Gesù, più oltre un senso morale che implica l’etica, il dovere dell’uomo, e infine, come quarto, il più importante, il senso ultimo, il più profondo, il più segreto, il più nascosto ma vitale, quello che si chiama senso anagogico, perché è quello che si raggiunge attraverso gli altri.

Terza forma possibile è quella dei regimi di senso che ammettono l’interpretazione, il diritto a interpretare il segno: è dunque la forma di polisemia che le società laiche, razionali si permettono. Una società come la nostra ammette l’interpretazione. Non l’ammette sempre, talvolta limita singolarmente il diritto di interpretare un messaggio ma infine, diciamo che, proprio perché la parola esiste, l’interpretazione è una sorta di riconoscimento laico, razionale e limitato del diritto alla polisemia. Per esempio, ritroviamo questo nei diritti della critica letteraria, quando sono riconosciuti. Di certo, non possiamo attualmente immaginare una semiotica dell’immagine che non sia una semiotica della polisemia. L’immagine è, per natura, costitutiva di un messaggio polisemico. Non si può ridurre l’immagine a un solo senso e, di conseguenza, per fare una semiologia dell’immagine, occorre innanzitutto riconoscere la virtù, la costituzione, la natura polisemica di ogni immagine: specialmente a proposito dell’immagine che sembra la più oggettiva e la più reale: la fotografia. Sappiamo bene che la fotografia è un messaggio polisemico come gli altri.


Asemia Una terza forma di regime del senso sarebbe un regime di asemia, cioè l’assenza di senso, o meglio, di esenzione dal senso. Al livello molto generale in cui ci collochiamo, l’asemia, cioè la non-simbolia, che vediamo essere molto diversa dall’asimbolia, rappresenta un’esperienza limite, sul piano delle società, delle civiltà, che bisogna interrogare. Si tratta di sforzi, ben localizzati in certe civiltà, in certe società, per arrivare a ciò che chiamo l’esenzione totale dal senso. Ciò non ha nulla a che fare, strutturalmente, con l’assurdo; l’assurdo o l’assurdità è un senso, precisamente il senso dell’assurdo, l’esenzione dal senso è dunque uno stato del senso infinitamente più difficile da realizzare, è una sorta di vuoto del senso o piuttosto il senso sentito e letto come vuoto, che non è il caso dell’assurdo. Questo vuoto del senso dove si trova? Possiamo darne qualche esempio? Tutti i linguaggi formalizzati, specie il linguaggio matematico e logico, sono linguaggi vuoti di senso. Sono costituiti da pure relazioni; ma in queste relazioni non è inserita alcuna pienezza di senso. Sarebbe come una lingua che non esisterebbe se non attraverso la sua sintassi e non attraverso il suo lessico. Ecco, pressappoco cosa sarebbe questo vuoto, questo linguaggio vuoto di sistemi formalizzati.

Altra zona molto lontana nello spazio, se non nel tempo, in cui noi possiamo ravvisare l’idea di un linguaggio vuoto, di un senso vuoto, sarebbe nell’ambito delle esperienze mistiche. Ma aggiungo subito che non è nelle descrizioni della mistica cristiana, benché esse giochino molto con questa idea del vuoto e del senso del vuoto, della notte, in mistici come San Giovanni della Croce o Teresa d’Avila, che andrò a cercare il migliore esempio, ma nel campo delle esperienze delle religioni non monoteiste; perché il monoteismo ha un rapporto molto preciso con un certo uso e una certa concezione del senso, del monosenso, se così posso dire. Il monoteismo non fornisce un buon esempio di questa sorta di liberazione totale del senso e dell’esenzione dal senso, cui tento di avvicinarmi ora. Bisogna cercare questo vuoto, questa esenzione dal senso sul versante di esperienze come quelle del buddismo Zen (buddismo giapponese). Tutta l’ascesa dello Zen è precisamente diretta verso una sorta di svuotamento, di vedovanza del senso, e i teorici dello Zen hanno ben capito che l’impresa più difficile al mondo non è di dare un senso (lo facciamo naturalmente) ma, al contrario, di sottrarre senso. Ed è questo che assume valore nella prospettiva dell’ascesi spirituale. Esiste nello Zen un esercizio (i termini occidentali sono molto imprecisi, sono solo semplici approssimazioni) di meditazione che è veramente un esercizio di liberazione dal senso assolutamente impressionante. È l’esercizio in cui il bonzo dà a colui che vuole affrontare l’esercizio, all’esercitante, che può essere un altro bonzo o anche un laico che si presenta per un ritiro, una specie di frase o aneddoto apparentemente assurdo da meditare. La meditazione non consiste nel trovare finalmente un senso alla frase assurda, ma al contrario, attraverso l’assurdità della frase, fare l’esperienza del vuoto di senso. Infine, paradossalmente, c’è un terzo ambito in cui attualmente possiamo imbatterci nell’esercizio dell’esenzione dal senso, cioè una certa avanguardia letteraria. Oggi, per esempio, i testi e il pensiero di un gruppo come quello della rivista Tel Quel girano intorno a una specie di distruzione della leggibilità, del leggibile.

Possiamo qui inserire una definizione del leggibile. Chomsky distingue nello studio della lingua tra frasi grammaticali e frasi agrammaticali.

Una frase grammaticale deve rispettare le norme e le regole sintattiche di una lingua. Ma questa frase, che è grammaticale perché soddisfa le regole della sintassi, può essere perfettamente spogliata di senso, pensa Chomsky. Chomsky ha fornito un esempio ora abbastanza famoso: «incolori idee verdi dormono furiosamente» [2]. Ecco una frase che è perfettamente grammaticale in francese ma è perfettamente priva di senso, pensa Chomsky, e ciò lo conduce a distinguere tra frasi grammaticali e frasi non interpretabili. La frase citata è grammaticale ma non sarebbe interpretabile. Chomsky ha lavorato unicamente su frasi grammaticali lasciando da parte il problema del senso del lessico, di cui abbiamo visto poco fa che era in ritardo rispetto al problema della sintassi.

Jakobson ha risposto a Chomsky che in realtà c’è sempre un momento in cui questa frase che Chomsky dichiara priva di senso può avere un senso. Ciò dipende dal contesto, e quand’anche una frase resistesse al più gran numero di contesti che si possa immaginare, ci sarebbe comunque un contesto poetico in cui essa potrebbe di nuovo essere interpretabile.

Il problema diventa interessante quando lo si trasferisce al discorso: cos’è un discorso classico nel senso più ampio del termine? Per esempio, un paragrafo di Balzac, Stendhal, o una strofa di Baudelaire o un paragrafo di Camus o di Omero? In tutta questa letteratura, le serie di frasi hanno precisamente un carattere interpretabile e non solo ogni frase. È il carattere interpretabile del discorso che formerebbe il leggibile, e di conseguenza è questo leggibile, questa leggibilità che, nella maggior parte delle volte, giudichiamo perfettamente universale e naturale; è questa leggibilità che è in qualche modo rimessa in discussione da certe esperienze dell’avanguardia letteraria che si appoggiano a testi che non hanno questo carattere d’interpretabilità. L’opera di Lautréamont sarebbe un esempio di discorso non interpretabile e che ci rappresenterebbe la possibilità di un discorso in qualche modo illeggibile nel senso proprio del termine. In questa avanguardia letteraria c’è una riflessione molto interessante sulla leggibilità, sui limiti del leggibile. È un’esperienza di asemia o di ricerca di un discorso che sarebbe in qualche modo liberato dall’ipoteca del senso o, in ogni caso, dell’antico governo del senso.

Quale è la posta di queste riflessioni o di questi problemi? Mi pare che si possano collocare questi problemi del senso a tre livelli: prima, il livello psicologico: qui bisogna rifarsi ancora una volta ai lavori di Lacan. Lacan ha descritto la psiche umana come un campo in cui si elaborano catene di significanti, di significanti in successione, ogni significante diventa il significato di un altro significante che lo conduce più lontano. Sono catene di simboli, costruite secondo una forma metaforica (poiché la metafora stessa è una catena di significanti) che strutturerebbero in qualche modo l’inconscio e che avrebbero in fondo un solo significato ultimo. Il mondo psichico nel suo complesso sarebbe un mondo occupato da significanti a tutti i livelli; e tutti questi significanti rinvierebbero allora, nell’inconscio, a un significato unico e ultimo che Lacan chiama metafora paterna. Ma, e qui Lacan ha formulato le cose in un modo nuovo, per Lacan il significato ultimo, che è in qualche modo al termine o all’inizio, nell’inconscio di queste catene di significanti, è una mancanza, un vuoto. È, in termini psicanalitici, la mancanza fallica, il fallo come sesso maschile preso nel suo valore significante, in quanto simbolo; questa mancanza fallica è precisamente legata al fondamentale complesso di castrazione che sarebbe all’inizio o alla fine di questa catena di significanti. La nostra psiche, che sia normale o patologica, passerebbe il tempo a elaborare simboli e significanti a partire da un vuoto, quello definito in termini psicanalitici dalla castrazione. Ciò è nuovo e importante poiché si oppone in qualche modo a tutte le psicologie della pienezza, a tutte le psicologie dell’essenza e delle essenze psicologiche. Ciò costituisce una riflessione estremamente nuova sui rapporti del senso e del vuoto.

Un secondo livello è il livello metafisico così come lo vediamo attualmente esplorato nei testi di Jacques Derrida. Sappiamo, da Saussure in poi, con molta chiarezza, che il segno è una differenza. Perché ci sia un segno, occorre che ci sia differenza, differenza tra due significanti (gioco paradigmatico). Saussure aveva detto per primo, in modo rivoluzionario, che la lingua era un sistema di differenze; Derrida ha spinto le cose fino all’estremo e ha visto che il segno è una differenza, l’innesco di una sorta di processo infinito, che spinge infinitamente indietro il significato. Si pensava fino a oggi che ci fosse bisogno di questa specie di arresto del senso. Si pensava che i segni fossero una mescolanza di significanti e significati, ma che una volta raggiunto il significato, il segno si arrestasse, una volta che fosse tutto pieno, tutto colmo, tutto normale. Ora si comincia a intravedere che i sistemi di segni non possono mai arrestarsi, che non possiamo mai fermare questi sistemi su significati ultimi o su un significato ultimo. È qui evidentemente l’inizio di una riflessione metafisica che arriva molto lontano e che è in realtà profondamente atea, poiché i sistemi teologici fanno di Dio il significato ultimo.

Sarebbe difficile concepire che Dio sia il significante di qualche cosa; Dio è ciò che è significato, è lui che è all’origine in quanto significato ultimo ed è lui che è in qualche modo all’inizio di tutte le catene di simboli e trasformazioni significanti. A partire dal momento in cui si afferma che non c’è alcun significato ultimo e che i segni sono sempre sistemi infinitamente arretranti di differenze, è evidentemente una contestazione radicale portata alla teologia e alla nozione stessa di origine. È un modo di pensare o esaurire [3] l’origine, poiché, in un processo infinito di differenze, non si può più pensare l’origine stessa.

Una struttura, finora, è stata sempre pensata come dotata di un centro. Ora, con ricerche e formulazioni come quelle di Lacan, Lévi-Strauss, Derrida si è ancor più obbligati a tentare di pensare strutture decentrate, perché il linguaggio è diventato qualcosa di estremamente importante. Non è una questione di moda o di casualità ma perché effettivamente il linguaggio appare come esempio di una struttura decentrata. In un dizionario, ad esempio, si può ricostruire la struttura delle parole o dei sensi tra di essi ma non si può mai, per esempio, definire una parola con l’aiuto di altre parole. È dunque teoricamente un oggetto vertiginoso. Se non lo maneggiamo come un oggetto vertiginoso, è per una ragione di pura contingenza, poiché ci fermiamo di colpo al primo segno che ci dà la definizione di una parola, ma se volessimo trattare teoricamente il dizionario per ciò che è, a ogni parola che ci serve a definirne un’altra bisognerebbe risalire alla definizione di questa parola e così di seguito. Di conseguenza non si arriverebbe mai a strutturare, a centrare la struttura.

Infine, un terzo livello di responsabilità di tutti questi problemi è quello offerto da questa avanguardia letteraria di cui ho già parlato e che chiamerò livello politico. Possiamo domandarci effettivamente se non ci sia una sorta di rapporto macrostorico, al livello delle grandi tipologie di società o di civiltà, tra una certa elaborazione dei sensi, dei sistemi di sensi e degli strumenti di potere o di produzione come il denaro. C’è forse una sorta di rapporto tra il senso e il denaro, una stessa concezione del valore, del valente per. È un fenomeno molto significativo che termini che si applicano all’economia e alla moneta si applichino ugualmente al linguaggio e, da quando de Saussure ha voluto cercare un termine di paragone per spiegare cosa fosse la lingua, molto innocentemente, ha preso come metafora l’economia politica.

Ora, se studiassimo meglio certi sistemi di segni della nostra società di consumo centrata sul denaro, ci accorgeremmo dei rapporti stretti e dei rapporti organici tra certi regimi di senso e certe leggi del consumo. È ciò che volevo tentare di suggerire studiando il linguaggio della moda. Nella moda, in realtà, ciò che fa vendere non sono solo rappresentazioni di tipo onirico legate a forme d’abbigliamento, nonostante gli sforzi dei giornali di moda su questo aspetto. In realtà, ciò che costituisce la moda come oggetto di mercato è che essa è costituita come un sistema di segni. Nella moda, non è il sogno, ma il senso che fa vendere.


* Apparso in Cahiers Média, Centre régional de documentation pédagogique, Bordeaux 1970. Cfr. OC III, 507-519.

[1] «Le frisson du sens», cfr. OC III, p. 512, nonché OC IV, p. 674.
[2] /Colourless green ideas sleep furiously/, noto sintagma coniato da Chomsky a cui Jakobson dedica penetranti analisi, cfr. R. Jakobson, Saggi di linguisica generale, ed. it. a cura di L. Hillman, Feltrinelli, Milano 1973, p. 71 e sgg.
[3] Gioco di parole basato su /penser/ e /dépenser/.



Barthes al Collège de France, 1977

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